Molto spesso i medici miei colleghi si sforzano di comunicare ai loro pazienti che le malattie da cui sono affetti, che siano fisiche, come le malattie autoimmuni, o psichiche, come la depressione, sono croniche e inguaribili; spesso a questo messaggio se ne aggiunge un altro che suona più o meno così: “lei si deve rassegnare, ci deve convivere, dovrà fare queste terapie per tutta la vita”.
Pur partendo dal fatto che sicuramente le moderne terapie farmacologiche hanno cambiato la clinica e l’evoluzione di molte patologie migliorando moltissimo la qualità di vita di molti pazienti e che interromperle senza una supervisione specialistica è sempre sconsigliabile, queste “profezie” negative hanno un senso e un’utilità e, soprattutto, corrispondono SEMPRE alla verità? A mio parere la risposta è NO! E spiego perché.
Come ho scritto sopra, i farmaci utilizzati per molte malattie definite “croniche” hanno portato indubbi vantaggi e sicuramente i messaggi di sventura portati dai medici nascono dall’intenzione positiva di preservare la salute dei pazienti raccomandando loro di attenersi alle cure prescritte.
Tuttavia i meccanismi sottesi a molte di queste patologie sono estremamente complessi e coinvolgono tutto l’organismo, sia nella sua componente fisica che in quella psichica, emotiva e spirituale.
Questo concetto ha dei fondamenti scientifici di assoluto valore, descritti nel paradigma scientifico della PsicoNeuroEndocrinoImmunologia (PNEI), che descrive le affascinanti relazioni tra la mente, il Sistema Nervoso, gli Ormoni e il Sistema Immunitario.
Ogni malattia quindi ha chiavi di lettura più ricche e, soprattutto, ha chiavi terapeutiche più ampie, ancora in parte inesplorate ma sempre più studiate e validate: si parla di alimentazione, cura della flora batterica intestinale, esercizio fisico (comprese discipline antiche come yoga e thai chi), medicine “complementari” e, non ultime, le tecniche per la mente come ipnosi, psicoterapia, meditazione, che sono risultate in grado di generare benefici terapeutici e di cambiare la storia delle malattie stesse.
Ogni paziente è un caso a sé stante e la patologia ha gravità diversa, viene vissuta e affrontata in modo diverso, evolve in modo diverso.
E proprio di questo si parla, di “storia della malattia”: la complessità che c’è dietro a ogni malato non dovrebbe consentire di fare previsioni ineluttabili proprio perché tutte le componenti della persona potrebbero agire positivamente portando a un riequilibro generale che in fin dei conti si può chiamare “guarigione”.
Comunicare la inguaribilità può essere come emettere una specie di “sentenza” di condanna che non è affatto utile e ottiene risultati non propriamente auspicabili.
In primo luogo la persona, riconoscendo al medico una autorità pressoché assoluta alle cui affermazioni attribuire la massima credibilità, si imprime nel cervello un’immagine molto solida e definita del proprio stato di “malata” e il suo inconscio agisce inconsapevolmente per mantenere e nutrire questa convinzione; questo processo, ben descritto da molte teorie avanzate del funzionamento della mente, viene descritto come una sorta di “profezia che si autoavvera”, non perché sia corretta ma perché il soggetto si convince che lo sia ed essa non potrà che avverarsi.
In secondo luogo la malattia diviene addirittura una parte dell’identità del soggetto: “io non sono uno che HA una malattia, io SONO un malato”.
Anche davanti a miglioramenti potrà, per assurdo, esserci l’incredulità dovuta a una convinzione di inguaribilità che potrebbe generare una sorta di auto sabotaggio.
Per questo la Medicina più avanzata insiste molto anche sulla necessità di cambiare il linguaggio della comunicazione sanitaria proprio allo scopo di creare nella mente del sofferente una nuova immagine di sé, in salute, in un percorso di miglioramento, benessere e, perché no, di guarigione.
Tale approccio favorisce una migliore adesione alle terapie e mette in moto energie psico-fisiche dalle potenzialità incredibili che invece possono essere inibite, se non annullate, da una “profezia” negativa.
I più moderni studi sull’effetto placebo e sul suo gemello negativo, l’effetto nocebo, hanno mostrato quale sia la enorme importanza delle nostre convinzioni nel condizionare l’efficacia (o l’inefficacia) delle terapie, di qualunque genere esse siano.
Non si tratta di creare illusioni (e comunque chi l’ha detto poi che credere alle illusioni sia solo negativo?) ma di nutrire la speranza e guidare la mente in direzione positiva. Attenzione! Non stiamo parlando, lo voglio ribadire, di decidere superficialmente di interrompere le terapie che già stiamo seguendo ma di accettare l’idea che la storia delle nostre malattie non è già scritta e che potremmo scoprire che è una storia a lieto fine: davanti a progressivi e evidenti miglioramenti la riduzione e magari l’interruzione delle terapie potrà divenire una prospettiva molto reale.
Infine mi permetto di proporre una riflessione per me molto interessante e promettente: perché, quando una malattia migliora ma magari non scompare completamente o definitivamente, invece di pensare che siamo dei malati che non guariranno mai, non riflettiamo che siamo persone sane che, come tutti, ogni tanto hanno qualche fastidio transitorio che con facilità e rapidità abbiamo la certezza di poter superare?
Dott. Lorenzo Rosa